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Vendemmia “nera” in Sicilia, come la manodopera, la crisi e la disperazione di chi produce l’uva

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La vendemmia, in Sicilia, si tinge di nero, come il colore della pelle della manodopera a basso costo, come il lavoro non in regola, come la crisi che attanaglia il settore, come la disperazione di chi produce l’uva col sudore della fronte e la si vede “rubare” per pochi spiccioli da un libero mercato “marcio”, se non “viziato”.  Una task force, composta da carabinieri del nucleo Ispettorato del lavoro, e ispettori dell’Inps stanno eseguendo copiosi controlli a macchia di leopardo per contrastare il lavoro nero. Una sorta di guerra fra i poveri: da un lato i poveri lavoratori in nero di tutte le razze e dall’altro gli altrettanto “poveri” produttori viticoli, in ginocchio da una crisi cronica che porta il prezzo di commercializzazione delle uve sempre più giù e, nello stesso tempo, all’aumento incontrollato delle spese di gestione. Ed ecco che paradossalmente nella decantata Sicilia del vino “sfruttatori” e “sfruttati” diventano le due facce della stessa medaglia, la povertà

Uno degli ultimo blitz dei carabinieri è scattato prima dell’alba, nei vigneti che si estendono a macchia d’olio fra Mazara del Vallo e Marsala. Gli inquirenti hanno fatto irruzione fra i filari di vigne di tre aziende agricole, scoprendo 13 operai a lavorare in nero, su 17 vendemmiatori identificati. Non è scattata la sospensione in quanto si trattava di merce deperibile, ma sostanziose sono sono state contestate sanzioni amministrative elevate ai datori di lavoro per 41 mila euro.  Anche in provincia di Palermo, la vendemmia, si colora di nero. Fra Monreale e Camporeale sono tanti i lavoratori irregolari scoperti durante i controlli in tre aziende. Ventuno sui 27 controllati. E due sono minorenni.

Storie di ordinario sfruttamento. Dall’alba al tramonto, sotto il sole cocente di agosto. Per “salari che oscillano dalle 30 alle 50 euro al giorno, rigorosamente in nero. Giovani ghanesi, gambiani, eritrei, ivoriani, tutti in fila verso i campi della vendemmia che poi daranno l’eccellenza del vino siciliano. I carabinieri del Nucleo Operativo del Gruppo tutela del lavoro hanno sorvolato in elicottero la provincia palermitana e nelle vigne hanno trovato anche diversi rumeni. Pure italiani in nero, perchè in Sicilia il lavoro stabile regolare, è ancora un appannaggio per milioni di siciliani. Quanti vendemmiatori, ognuno con la propria storia, tutti accomunati dallo stesso triste destino: lo stato di bisogno che sta alla base dello sfruttamento del lavoro.  I giovani extracomunitari sorpresi nel Palermitamo sono i fortunati, perché hanno un regolare permesso di soggiorno. A differenza degli altri novanta lavoratori in nero individuati dagli investigatori dell’Arma nell’ultimo mese di verifiche, l’85 per cento dei controllati in tutta la Sicilia. Fa riflettere l’ammontare delle sanzioni elevate: un milione di euro. Solo 63 mila euro elevati nel corso del blitz fra Monreale e Camporeale. E per uno degli imprenditori è scattata anche una denuncia per violazione delle norme in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

I controlli proseguiranno, c’è un mondo sommerso ancora da individuare. C’è uno sfruttamento che è diventato normalità. Dalle vigne del Palermitano a quelle del trapanese, ma anche le restanti province siciliane non sono immune, vivono la stessa drammatica situazione. I i carabinieri guidati dal maggiore Pierluigi Buonomo hanno scoperto nei campi di Gibellina dove si coltivano i meloni, nelle serre del Ragusano piene di pomodorini, nei terreni dell’Agrigentino famosi per le pesche. E poi ancora il triangolo nero della provincia di Catania: Biancavilla, Paternò e Palagonia. Il problema non è territoriale e le cause andrebbero cercate a monte

«Gli ultimi casi dimostrano come sia importante la legge sul caporalato per contrastare un fenomeno diffusissimo, ma va fatto ancora tanto: la stessa normativa prevede la creazione di una cabina di regia regionale che in Sicilia non è mai partita», ha denunciato di recente Alfio Mannino, della Flai Cgil. I numeri parlano chiaro: secondo i sindacati, su 120mila braccianti iscritti nell’elenco anagrafico in Sicilia, il 50 per cento lavora in nero o irregolarmente. Il 12 per cento dichiara di essere impiegato da 0 a 10 giorni l’anno. E i controlli dell’ispettorato del lavoro non bastano: 317 in un anno, in un tessuto di 35mila aziende. Davvero pochi. La drammaticità della situazione si manifesta in tutta la sua evidenza quando i numeri prendono vita con i drammatici racconti dei braccianti scoperti dalle forze dell’ordine. I lavoratori in nero vivono spesso in caseggiati di pochi metri, vicino all’azienda. Lo sfruttamento è organizzato.

Anche le storie di chi sfrutta si assomigliano. «Fanno tutti così», è la frase che ricorre più spesso nei verbali dell’ispettorato del lavoro. «Che male c’è». E poi giù con motivazioni che spaziano dalla «crisi del settore» a «c’è stato un equivoco, chiarirò tutto». Ma nei casi più gravi di caporalato è scattato anche l’arresto. «È la punta di un iceberg», insistono i sindacati. «Il fenomeno è destinato a crescere». Migliaia, infatti, sono i produttori che riescono a farla franca: la vendemmia dura poco e gli ettari interessasti sono tanti. Non sempre la mano della legge riesce a  fare “giustizia” fra i vigneti.

Il lavoro nero in vendemmia è una vecchia piaga,  non è, infatti, una novità degli ultimi giorni. La forbice: fra chi produce le uve e le aziende che mettono il prezioso nettare in commercio, si allarga a dismisura, “costringendo” talvolta gli agricoltori a spingersi sulla strada dell’illegalità. E’ un settore “senza regole” dove i conti non quadrano. Non è ammissibile che un litro di vino comune esca a meno di 30 centesimi dalle Cantine Sociali che detengono il 70% della produzione per finire in pregiate bottiglie, talvolta sotto l’effige di blasonati marchi, che vengono vendute per svariati euro al consumatore finale. C’è chi si arricchisce vergognosamente (l’industriale che imbottiglia) e percepisce pure gli aiuti economici della Comunità Europea ed i benefici dello Stato (non indifferenti, anche di milioni di euro l’anno), c’è chi vive a stenti, senza un reddito certo, il vignaiolo e infine, allo stato di povertà assoluta, vi è il bracciante agricolo in nero o quasi. In Sicilia un quintale d’uva, la migliore che si può produrre, non supera mai i 30 euro; anzi la stragrande parte della produzione viene venduta attorno ai 20 euro. Lo stesso quantitativo di uva nell’Italia centro-settentrionale di vende attorno alle 200 euro con picche che possono sfiorare pure i 300 euro. Ma non è sempre Italia? Non vige lo stesso sistema fiscale?

“Nera” è sempre più lo sarà la vendemmia in Sicilia, ma non è tanto più chiara la situazione economica e sociale di chi produce l’uva e di chi vende il prodotto finito. A sostenerlo sono gli studi di settore che in viticoltura, come in quasi tutte le colture in Sicilia, evidenziano che sull’Isola “misteriosamente” si riesce a produrre al di sotto dei costi vivi di produzione, ma sui mercati le produzioni siciliane si vendono allo stesso prezzo di quelle prodotte nel resto del Paese. E’m evidente che c’è del marcio.  In questo drammatico panorama economico è lecito chiedersi cosa fanno le istituzioni, la politica, ma soprattutto i sindacati e le organizzazioni di categoria.

Alberto Di Paola

 

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